Economia informale: un pericolo o una risorsa per l’Africa?

23.03.2021
In Africa, di fronte all'indifferenza dello Stato, l'organizzazione informale dei rapporti di produzione assume un peso politico notevole.
In Africa, di fronte all'indifferenza dello Stato, l'organizzazione informale dei rapporti di produzione assume un peso politico notevole.

La maggior parte di noi vive all'interno di un contesto caratterizzato da salari, tasse pagate in tempo, contratti formali, responsabilità lavorative, paura delle autorità fiscali. È, questo, un mondo regolato da schemi prefissati e criteri ben definiti, i quali corrispondono al medesimo sforzo istituzionale di organizzare la società attraverso linee formali.

Il concetto di "forma" non è un concetto nuovo: esso infatti deve la sua prima apparizione a Platone, nell'ambito della filosofia greca antica, per poi essere stato a più riprese oggetto delle interpretazioni che le varie scuole di pensiero ne hanno dato nel corso dei secoli. L'idea di una forma intesa come unico modello a cui adattarsi è, tuttavia, un'invenzione squisitamente moderna, così come la conseguente concezione dell'economia formale, la quale affonda le sue radici nella teoria economica neoclassica. Secondo la prospettiva neoclassica, l'individuo è chiamato ad agire attraverso il principio di razionalità, ovvero calcolando razionalmente quelle risorse che gli permettono di raggiungere lo scopo nel modo più efficiente e vantaggioso possibile. Stando a questo principio, l'essere umano dovrebbe dunque agire esclusivamente in vista del proprio personale tornaconto, maturando così un atteggiamento calcolatore e utilitaristico al fine di perseguire il proprio benessere individuale.

Il pericolo di un'economia così concettualizzata è quello di non lasciar spazio alcuno a modelli alternativi di organizzazione economica. L'unico spazio considerato legittimo è, infatti, quello del mercato. Un mercato che spinge alla libera concorrenza e alla sopraffazione, dove le scelte dell'attore sociale sono orientate dalle sole regole considerate valide al fine di soddisfare il buon funzionamento economico: l'individualismo, la razionalizzazione e l'utilitarismo. Da ciò ne consegue che qualsiasi regola sociale non conforme al modello imposto sia interpretata come un'interferenza e che dunque, in virtù di ciò, debba essere eliminata.
Nonostante tale modello sia di per sé un costrutto illusorio, la sua forza risiede nell'essere circoscritto da una certa regolarità e da un ritmo prevedibile, il che rende vano ogni tentativo di sottrarsi al suo giogo.
Il termine "informale" riflette la sua natura antitetica rispetto a questo ordine apparente, il quale domina non solo l'elemento economico ma anche gli altri aspetti della nostra società. Informale è, per definizione, tutto ciò che è al di fuori della forma; esso comprende tutte quelle attività - economiche, ma non solo - che sfuggono al controllo burocratico messo in atto dallo Stato e che, alla luce di questo, destano spavento e preoccupazione. Coloro che operano nel settore informale dell'economia sono spesso guardati con sospetto da parte delle forze dell'ordine, il che è dovuto all'erronea concezione, ormai radicata nel pensiero occidentale, che informale sia l'equivalente di illegale. In realtà, le attività informali più comuni sono tutte quelle relative alla produzione per l'auto sussistenza o per il piccolo commercio, come l'artigianato, l'agricoltura, il riciclaggio di materiale di scarto, e solo una minima parte di esse appartiene all'oscura sfera dell'illegalità. L'informalità, inoltre, quasi mai è frutto di una scelta compiuta dopo aver agitato per bene il ventaglio delle possibilità ma, più verosimilmente, è spesso l'unica scelta che un uomo ha a disposizione per sopravvivere. Questo è vero in modo particolare nel contesto dell'Africa subsahariana, dove è stato introdotto per la prima volta il concetto di economia informale ad opera dell'antropologo Keith Hart in un suo studio del 1971 condotto sulle attività a basso reddito tra i migranti del Ghana settentrionale che si erano spostati verso la capitale, Accra, alla ricerca di maggiori opportunità lavorative.

Non sempre, tuttavia, la ricerca porta ai risultati auspicati: è stato questo il caso della maggior parte dei migranti interni ad Accra i quali, a causa della carenza di impieghi disponibili nel settore formale, hanno dovuto cercare altrove una possibile fonte di guadagno.

Fenomeni come la disoccupazione o la sottoccupazione, dilaganti in Africa e negli altri paesi cosiddetti "in via di sviluppo", sono diretta conseguenza del fallimento delle politiche di sviluppo portate avanti negli anni '50 e '60. La crisi economica in cui attualmente riversa il continente africano, aggravata ulteriormente da un decennio di aggiustamenti strutturali e almeno tre decenni di politiche neoliberali, è stata evidente sin dall'inizio dell'Indipendenza e riflette l'incapacità dell'economia ufficiale di offrire un aumento del servizio pubblico e di un lavoro salariato regolare almeno pari all'aumento della popolazione.

In Tanzania, il peso crescente dell'informalità a livello culturale, sociale ed economico ha portato alla Dichiarazione di Zanzibar del 1991, che ha legittimato l'importanza e la necessità delle attività informali.
Dar es Salaam, "porto della pace", rappresenta la città con la più grande e rapida crescita urbana della Tanzania, con una popolazione stimata intorno ai tre milioni di abitanti. La principale fonte di questa crescita è rappresentata dalle migrazioni provenienti sia dai distretti rurali che dai paesi limitrofi, le quali hanno incentivato lo sviluppo del settore informale. Tuttavia, sebbene almeno teoricamente le attività economiche appartenenti al settore informale siano state riconosciute e parzialmente regolarizzate, a Dar es Salaam permane una certa antipatia ideologica verso il settore informale. Prova di ciò sono i continui soprusi che i venditori ambulanti subiscono più o meno regolarmente dalle forze dell'ordine, come arresti, sfratti e violenze fisiche. Il risultato di tali azioni è l'esatto opposto di quanto si vorrebbe perseguire: attraverso questo modo di agire le autorità locali non fanno altro che aumentare la criminalità laddove l'obiettivo dovrebbe essere quello di ridurla. Il problema di favorire il settore informale sembra essere radicato nel modo in cui le città sono concepite: la legislazione in vigore fornisce, di fatto, una struttura amministrativa per la città costruita intorno a un solo tipo di economia, quella formale, piuttosto che attorno ad economie miste, sia formali che informali, tipiche di città come la Tanzania. Per difendersi dai continui abusi a cui sono soggetti, molti piccoli commercianti hanno dunque adottato strategie, anche associative, per individuare l'arrivo delle forze dell'ordine. Esiste, infatti, un numero cospicuo di organizzazioni nel settore informale di Dar es Salaam, le quali rappresentano risposte collettive a bisogni fondamentali che lo Stato non soddisfa e che l'individuo non è in grado di soddisfare da solo.

Tutto ciò riflette l'esistenza di una potenziale tensione tra i piccoli commercianti e le autorità cittadine, ma sottolinea anche la forza dei lavoratori informali di Dar es Salaam che, con un coraggioso atto di resistenza, affermano il loro diritto alla sopravvivenza in un mondo che dà loro nessun'altra possibilità se non quella di intraprendere un altro percorso, diverso da quello comune, ma non per questo sbagliato.
«Per sopravvivere non hanno altra scelta che organizzarsi secondo un'altra logica. Devono inventare, e alcuni almeno inventano, un altro sistema, un'altra vita. Questa è una delle poste in gioco dell'"economia informale" del Sud. Non si tratta realmente di un'altra economia, ma di un'altra società».
In Africa, di fronte all'indifferenza dello Stato, l'organizzazione informale dei rapporti di produzione assume un peso politico notevole. La "società vernacolare" di cui parla Latouche - economista, filosofo e sociologo francese -, attraverso le reti informali che si instaurano tra i suoi membri, riesce a sfruttare la solidarietà e l'aiuto reciproco, operando così una fusione tra tradizione e modernità. Non si tratta di coprire la nostra vista con il filtro della nostalgia volgendo lo sguardo ad un passato ormai perduto, ma piuttosto di un recupero di tutti quei rapporti di parentela, amicizia e vicinato che riescono a fornire canali di solidarietà quando lo Stato si rivela incapace di provvedere al benessere collettivo. Queste reti di solidarietà sono ispirate da un principio di razionalità molto diverso da quello promulgato dal paradigma neoclassico, poiché si basa sulla ridistribuzione piuttosto che sull'accumulazione, sul legame sociale più che su quello economico.
Questa "regressione" verso forme di produzione più vicine all'economia di sussistenza che a quella di mercato sta avvenendo in modo più vistoso nelle aree urbane, anche se la sua presenza è altrettanto attestata nelle aree rurali, dove ci sono minori possibilità di guadagno al di fuori dell'attività principale, ovvero l'agricoltura. In alcuni casi, la presenza, nella zona rurale come in quella urbana, di istituzioni parallele accanto a quelle più propriamente formali, ha contribuito a un miglioramento della condizione delle donne e ad una maggiore visibilità come produttrici, permettendo loro di acquisire autonomia dai mariti e un ruolo più significativo nella gestione del reddito familiare.

La problematica che nasce con il settore informale deriva dal fatto che esso non può essere compreso dal punto di vista occidentale se non in termini di "transitorietà" o di "irrazionalità". Nella società individualista in cui viviamo, fondata sullo scambio e sull'autonomia dell'aspetto economico da quello sociale, il profitto viene elevato al rango di criterio universale e il principio di razionalità sostituisce ogni tentativo di proporre soluzioni di gruppo alternative. Continuando ad analizzare i fenomeni circostanti attraverso una prospettiva puramente etnocentrica, è però possibile cogliere solo una piccola parte delle complesse e molteplici dinamiche che stanno alla base dei rapporti economici e sociali che si ispirano a valori contrastanti rispetto a quelli dell'economia neoclassica.
La diffusione dell'informalità, lungi dall'essere un fenomeno che rasenta caratteri "arcaici" e "primitivi" come spesso è stato detto, mostra piuttosto come il controllo politico operato dai governi dell'Africa subsahariana non sia mai totale.

Attraverso la disobbedienza, il mancato rispetto delle normative statali, il contrabbando, la migrazione, gli scioperi e le rivolte, i gruppi sociali subordinati si pongono come agenti attivi del proprio cambiamento, reagendo all'esclusione e rivendicando il loro diritto di partecipazione alla vita politica e ai benefici della modernità.

In conclusione, si può affermare che l'informalità potrebbe, a lungo termine, costituire un vantaggio per gli stessi paesi africani in un contesto di integrazione economica globale in cui gli stati nazione tendono ad avere sempre meno controllo sulle attività economiche. Lo Stato oggi ha a che fare con nuove identità culturali, nuove solidarietà che organizzano nuovi spazi e che determinano lo sviluppo di nuovi fattori di integrazione. I legami informali rappresentano un ruolo imprescindibile nel garantire un più ampio accesso alle risorse, sia a livello nazionale che internazionale, non solo in momenti di crisi, ma come valida alternativa a un altro modo di produrre, di pensare, di vivere. L'informalità potrebbe, in ultima analisi, costituire la speranza dell'Africa di domani: ed è così che ciò che viene percepito come un pericolo per l'ordine statale potrebbe trasformarsi in una risorsa.

                                                                                                                         di Ida Pellegrino

Bibliografia consigliata:
Chen M. A. (2012), The Informal Economy: definitions, theories and policies. WIEGO Working Paper, 1, WIEGO
Hann, C., Hart, K. (2011), Economic Anthropology: History, Ethnography, Critique. Cambridge: Polity Press
Hart, K. (1973), Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana. The Journal of Modern African Studies, 11(1)
Hart, K. (2009), On the informal economy: the political history of an ethnographic concept, Working Papers CEB 09-042.RS, ULB -- Université Libre de Bruxelles
Latouche, S. (1997), L'altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino
Latouche, S. (1993), Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, Bollati Boringhieri, Torino
Tripp, A.M. (1997), Changing the rules: The Politics of Liberalization and the Urban Informal Economy in Tanzania, University of California press

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