Lorena Fornasir: la solidarietà dietro le sbarre

29.03.2021
Chi conduce le pur doverose inchieste sul traffico internazionale di migranti confonde comportamenti delittuosi con attività non solo lecite, ma tra le più virtuose.
Chi conduce le pur doverose inchieste sul traffico internazionale di migranti confonde comportamenti delittuosi con attività non solo lecite, ma tra le più virtuose.

Il 23 febbraio, all'alba, la Procura triestina dispone un mandato di perquisizione nella casa di Lorena Fornasir e del marito Gian Andrea Franchi, accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

Dal 2019, Lorena, Gian Andrea e la rete di volontari con cui hanno dato vita all'associazione Linea d'Ombra, si occupano di prestare assistenza e cure mediche ai numerosissimi profughi che arrivano in Italia dai confini orientali. E i pochi migranti che riescono a sopravvivere alla rotta balcanica raggiungono Trieste, sono bisognosi più che mai di questa forma d'accoglienza.                   Le loro condizioni sono laceranti: logorati dalla fame, nell'abbigliamento, ma soprattutto nel fisico. Riportano ferite e contusioni causate dalle sevizie della polizia di frontiera croata, che abitualmente requisisce loro le scarpe, costringendoli ad affrontare il resto del sadico gioco dell'oca a piedi scalzi, squarciandosi le piante dei piedi e congelandosi le dita. Talvolta la stessa polizia, in risposta alle richieste di aiuto dei migranti, anche minori, sguinzaglia contro questi dei cani pastore, compiacendosi alla vista dell'aggressione. Le testimonianze delle vittime riportano spesso i commenti soddisfatti degli agenti per l'operato dei loro cani: "dobro, dobro" (bene, bene).                Quando i superstiti ai crimini delle forze dell'ordine, oltrepassate le barriere dei respingimenti a catena, raggiungono finalmente Trieste, sono accolti dal presidio sanitario allestito da Lorena, di 67 anni e Gian Andrea, di 84. Mentre lei fornisce garze e medicine, lui distribuisce cibo e indumenti.

Queste dimostrazioni di solidarietà, a quanto pare, hanno fatto storcere il naso a qualcuno dentro e fuori dalla Procura di Trieste, la quale, acquiescente di fronte alle aggressive dimostrazioni di gruppi neofascisti di quattro mesi prima, ha incriminato i volontari di Linea d'Ombra e perquisito la loro sede. Il reato commesso sarebbe favoreggiamento dell'immigrazione clandestina; in questo specifico caso si tratterebbe di favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero, previsto e disciplinato all'art. 12 comma 5 del Testo unico dell'immigrazione. La particolarità di questa fattispecie penale è l'elemento soggettivo, che qui si configura come dolo specifico. Perché vi sia reato, in breve, occorre che l'autore della condotta agisca con un preciso scopo, e cioè al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero.

Ma quale "ingiusto profitto" potrà mai voler trarre chi, a proprie spese, si prende cura di altre persone, inginocchiandosi a curare piedi dilaniati dei migranti, nutrendoli e donando fondi in favore di chi è ancora bloccati nei Balcani? Linea d'Ombra, come tante altre associazioni, non fa che supplire all'inerzia dello Stato nell'assolvimento del dovere di assistenza a chiunque si trovi nel proprio territorio e sotto la propria giurisdizione.


Al di là delle configurazioni giuridiche della vicenda, che comunque spetterà alla magistratura declinare, a noi compete analizzarne un altro aspetto, altrettanto importante. 
La ratio del reato di favoreggiamento va ricercata nell'esigenza di neutralizzare il fenomeno di smuggling of migrants, cioè la tratta di migranti che comporta forme di sfruttamento tanto gravi quanto antiche, quali la soggezione sessuale o lavorativa, e consente di utilizzare la persona umana in modo strumentale, allo scopo di trarne, appunto, un'utilità. È evidente la distanza che c'è tra queste condotte e quella tenuta dagli umanitari incriminati a Trieste. Eppure oggi le vediamo sovrapposte. Vediamo chi conduce le pur doverose inchieste sul traffico internazionale di migranti, confondere comportamenti delittuosi e particolarmente abietti, con attività non solo lecite, ma tra le più virtuose. Definite da Luigi Ferrajoli "nuove forme di populismo punitivo", queste dinamiche sono di una gravità non quantificabile ed emblematiche di un paradosso: le due situazioni non sono più viste agli antipodi, come dovrebbe essere, ma vengono addirittura affiancate, come se a separarle ci fosse solo una linea sottile; come se ci fosse un limite, varcato il quale il volontario diventa sfruttatore e gli umanitari diventano scafisti.

A tali considerazioni presta il fianco la dichiarazione del procuratore capo di Trieste Antonio De Nicolo, effettuata poche ore dopo la perquisizione in casa di Lorena e Gian Andrea: "La Procura criminalizza i comportamenti che rivestono reato, cioè il favoreggiamento all'immigrazione clandestina con finalità di lucro. Se tra gli indagati c'è chi dimostrerà che ha operato non a scopo di lucro ma umanitario [...] la sua posizione sarà ovviamente archiviata". 
Non è solo l'errore tecnico in merito al principio generale dell'onere della prova, che grava sempre su chi accusa e non sull'accusato, a lasciare increduli; infatti, le parole di De Nicolo sembrano voler trasmettere anche un altro messaggio, ben preciso: alle attività solidali, sono connaturati secondi fini, e dunque ad esse bisogna guardare con sospetto, mentre solo in rari ed eccezionali casi, l'altruismo si dimostra fine a se stesso.

Questa diffidenza aprioristica e questa presunzione di colpevolezza, con tanto di inversione dell'onere della prova (in piena corrispondenza con ciò che in psicologia è chiamato il "bias cognitivo" per indicare un giudizio costruito sulla base dell'interpretazione di informazioni prive di  connessione logica o semantica, il cui risultato è l'errore di valutazione) non vanno sottostimate nella loro potenziale nocività, sopratutto perché operate a livello istituzionale. Eppure gran parte dell'opinione pubblica tende a sottovalutare la consistenza di tali dinamiche, nonostante la loro (programmatica) reiterazione.

Invero, la vicenda di Trieste non è affatto singolare: appena un anno fa Amnesty International, in occasione di un rapporto sul reato di solidarietà, ricordava che tra il 2015 e il 2018, ben 158 persone sono state indagate per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in uno stato dell'Unione Europea e 16 ONG attive nel soccorso sulla rotta Mediterranea hanno subito un procedimento penale per lo stesso reato. La vicenda ricorda altresì gli episodi vissuti al confine italo-francese, i quali hanno avuto come protagonisti Cédric Herrou e numerosi altri contadini, processati per aver accolto, protetto e sfamato migranti in esodo dall'Italia. Un dato particolare accomuna ciascuna di queste vicende: l'esito del processo. In nessun caso, la sentenza è stata di condanna. Ma nonostante ciò, episodi simili si ripetono senza soluzione di continuità e il reato di solidarietà si insinua indisturbato sia nell'ambiente giudiziario che in quello sociale, e le conseguenze possono  essere pericolosissime.

L'erosione sistematica delle forme di solidarietà, infatti, ha come primo effetto l'inibizione di ciò che dovrebbe essere un riflesso condizionato: prestare soccorso a chi è in stato di bisogno, prima ancora che un atto morale (nonché un obbligo giuridico in certi casi) è un impulso automatico, connaturato alla stessa realtà umana e come tale si presta alle situazioni di emergenza. Ma se oggi uno deve prima porsi la domanda "cosa mi succede dopo?" o "cosa rischio?", inevitabilmente tale riflesso viene meno. Non solo: chi, per attività professionale o volontaria, si occupa di assistenza verso altre persone, è naturale che debba rispondere a precisi requisiti, quindi avere competenze che, così come migliorano con la pratica, vengono frustrate dall'inerzia: se si impongono delle strettoie all'esercizio del soccorso, questo smette di essere praticato e il capitale di professionalità, che dapprima si era sedimentato, inevitabilmente rischia di dissolversi.

Infine, un altro risultato, già poc'anzi accennato, riguarda strettamente l'opinione pubblica che dall'esterno si affaccia su ciascuno di questi eventi. Non vivendoli in prima persona, essa è la passiva destinataria del profluvio di insinuazioni relative ad ogni forma di altruismo: uno stillicidio che intende esortare ciascuno di noi a non farci incantare, ad essere scettici verso chi aiuta il prossimo, perché "chissà cosa c'è dietro"...

E così l'opinione pubblica viene incentivata dall'alto ad abbassare la soglia del proprio senso morale e a perdere la fiducia nei confronti di chi spende tanta generosità, provandone persino disprezzo.

Con queste premesse viene spontaneo dare pragione a Lorena, quando afferma che la denuncia è stata "strumentalizzata per colpire la solidarietà". È difficile dubitare anche di un'ascendenza politica di questo biasimo rivolto ai volontari di Linea d'Ombra e non solo, perché investe direttamente il tessuto sociale. Lo impregna di un veleno che dal livello istituzionale contagia man mano la popolazione e diventando capillare si eleva a cultura di massa.

Questo non è accettabile. Perché fin quando verranno messi in dubbio certi principi fondamentali del vivere collettivo, fin quando al banco degli imputati, al posto dei trafficanti, siederanno gli umanitari, corrispettivamente, per il legame funzionale ed intrinseco che intercorre tra soccorritore e soccorso, verrà messo in discussione anche il diritto ad essere aiutati. Questa è la posta in gioco.


                                                                                                                                       di Giovanni Chemello 


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