Nel baratro. Una recensione di Thomas Bernhard.

21.07.2021
“Fare della letteratura” non deve considerarsi un gioco. Thomas Bernhard lo sa bene: ci dimostra quanto sia doloroso immergersi nelle fredde viscere della realtà e quanto sia rischioso creare un’opera d’arte, correndo il rischio di sprofondare insieme ad essa.
“Fare della letteratura” non deve considerarsi un gioco. Thomas Bernhard lo sa bene: ci dimostra quanto sia doloroso immergersi nelle fredde viscere della realtà e quanto sia rischioso creare un’opera d’arte, correndo il rischio di sprofondare insieme ad essa.

C'è chi ritiene che la letteratura sia un passatempo, una distrazione o, addirittura, un gioco. Negli ultimi tempi, soprattutto, questa assurda credenza si è diffusa prepotentemente, portando alla pubblicazione di inutili libricini scritti da ancor più inutili autoruncoli. Invece, Thomas Bernhard, scrittore austriaco della seconda metà del '900, pensa che la capacità di creare un'opera d'arte (tra cui, inevitabilmente, troviamo anche la scrittura e la pubblicazione di un libro) sia una facoltà propria a pochissimi esseri umani, anzi, a pochissimi geni artistici. Basterebbe semplicemente leggere il titolo di un suo celebre libro, Il soccombente, per comprendere le motivazioni che si celano dietro una così cinica affermazione e osservare il suo interessante punto di vista. I protagonisti del libro sono principalmente tre, ma a parlare, in prima persona, è il protagonista del quale Bernhard non ci fa sapere nulla. O meglio, del quale ci fa conoscere le coordinate essenziali allo scorrere della "trama" (non ci fa sapere, ad esempio, come si chiami). Gli altri personaggi, i cui nomi ci sono invece noti, sono Wertheimer, personaggio fittizio, e il celebre pianista canadese Glenn Gould. Tutti e tre i caratteri sono accomunati dalla medesima passione: il pianoforte. Si ritrovano, così, a frequentare i corsi del pianista e compositore Vladimir Horowitz, tenuti al Mozarteum di Salisburgo. L'elemento che destabilizza il lettore e che rende il testo zeppo di elementi cinici, nichilisti e pessimisti riguarda la focalizzazione dell'intero filo narrativo sulla spiccata ed irraggiungibile bravura artistica di Glenn Gould. La sua sovrumana abilità nel suonare le Variazioni Goldberg di Bach è ineguagliabile. Nessuno sarà in grado di farlo magistralmente come lui e, di conseguenza, qualsiasi tentativo di emulazione, risulterebbe inutile e autolesionista. Di fronte a questo insanabile divario, le soluzioni sembrano essere due: abbandonare la propria vocazione musicale, arrivando addirittura a ritirarsi nella più totale oscurità o, nel più drastico dei casi, al suicidio; oppure continuare a inseguire il proprio sogno con la devastante consapevolezza di quanto siano vani e inutili i propri sforzi, poiché destinati a rimanere inascoltati nell'etere.


Leggere un libro di Bernhard implica, senz'ombra di dubbio, avere nel proprio animo una forte componente autolesionista e autodistruttiva. Sono veramente pochi gli autori e gli artisti che, prendendoci dalla collottola, ci immergono nel mare glaciale della realtà, facendoci annegare e sprofondare negli abissi più oscuri. Un'immagine del genere, seppur fredda e insensibile, rappresenta pienamente l'effetto che la letteratura di Thomas Bernhard compie sul lettore.

Titoli come "Perturbamento", "Il soccombente", "Estinzione" sono solo degli eloquenti esempi di quanto la scrittura possa essere crudele: Bernhard usa la penna come un'ascia, aderendo ciecamente alla frase che scrisse Franz Kafka in una lettera indirizzata al suo caro amico Oskar Pollak ("Un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi"). La letteratura di Bernhard è accessibile solo a chi ha il coraggio di stagliare lo sguardo nell'oscurità dell'abisso: non è certo una lettura per poveri di spirito o per codardi, ma un repellente per coloro che hanno paura di venire schiacciati dalla realtà, con la quale Bernhard ti costringe a fare i conti. Ecco dunque che, ad esempio, nell'atto culminante della sua letteratura (che coincide, all'incirca, con la composizione di Estinzione) troviamo un incipit lapidario, che pone le basi per creare l'atmosfera glaciale e mortifera che si respirerà durante l'intera lettura. Un simile espediente letterario è riscontrabile in maniera più o meno radicale in tutte le sue precedenti opere, soprattutto in Amras, opera che lo stesso Bernhard considera la sua creazione meglio riuscita.


Estinzione, infatti, si apre con la consegna di un telegramma che annuncia la morte dei genitori e del fratello, avvenuta durante un incidente stradale, al protagonista Franz-Josef Murau. La scomparsa dei propri cari rappresenterebbe, per chiunque, un'autentica tragedia. L'esplosività della cosa, infatti, porterebbe al più assurdo dei comportamenti. Un moto di terribile disperazione pervaderebbe il nostro animo e, in preda alla peggiore tristezza, inizieremmo a urlare, a piangere o a soffrire in silenzio e interiormente. Eppure, la reazione di Franz-Josef Murau è pacata ed estremamente tranquilla. Un modo di reagire ad una catastrofe simile tanto assurdo quanto, bisogna ammetterlo, interessante e curioso. Egli, dunque, sembra essere impermeabile a qualsiasi emozione. Non solo non versa neppure una lacrima, ma sembra non accusare minimamente il colpo subito. Franz-Josef Murau, nonostante tutto, rimane impassibile e continua a vivere la sua giornata, senza che sul suo volto si noti una minima smorfia di dolore. E così, dopo aver ricevuto la drammatica missiva, rientra nel suo appartamento a Roma, in Piazza della Minerva, dove ha modo di riflettere su quanto accaduto. Tira fuori dalla tasca il telegramma ricevuto, lo osserva, lo mastica con gli occhi, lo legge e lo rilegge e, improvvisamente, qualcosa, in lui, sembra essere cambiato. Forse sarà stata la rilettura della lettera, forse la solitudine del vasto appartamento romano, forse una serie incessante di ricordi che improvvisamente sono affiorati nella sua mente. In ogni caso, appariva ormai evidente come, nelle viscere del protagonista, iniziasse a prendere piede una particolare risposta emotiva al suo dramma familiare. Tuttavia, contrariamente a quanto si possa pensare, ciò che stava per fuoriuscire dal suo corpo e che, attraverso gesti e parole sarebbe stato noto al lettore, non era assolutamente un senso di pietà, tristezza, malinconia e disperazione. Si trattava di tutt'altro. Avviene, invece, una tremenda manifestazione del più inadeguato, del più aberrante e contraddittorio sentimento che un uomo, in una condizione del genere, sia in grado di provare: odio puro. Franz-Josef Murau prova un viscerale odio nei confronti dei defunti parenti. La loro morte, dunque, rappresenta, in maniera molto semplice, il pretesto che ha portato il protagonista ad una dichiarazione così sincera, spudorata e bestiale. Capisce, solo dopo la loro morte, di detestarli profondamente. Oppure, solo dopo la loro morte, ha il coraggio di pensare, dire e (de)scrivere ciò che, da sempre, avrebbe voluto esternare. Un'assoluta follia.


Frugando nel cassetto della sua scrivania, riesuma una vecchia foto dei suoi genitori. La foto era stata scattata durante un viaggio a Londra. Entrambi i genitori indossavano un impermeabile Burberry e portavano un ombrello. La foto era stata scattata mentre si accingevano a salire sul treno, diretti chissà dove. Franz li scruta attentamente e, concentrandosi intensamente sulla loro immagine, trae un'interessante e bizzarra conclusione: si accorge di quanto essi siano imbarazzanti e goffi. Ad accentuare tale goffaggine, oltre ai movimenti, partecipa soprattutto l'abbigliamento dei due coniugi, che ricorda vagamente una specie di divisa da indossare in determinate occasioni. Perciò, entrambi, a suo modo di vedere, risaltavano per il buffo aspetto. Ciò non significa che fossero esteticamente brutti: erano, semplicemente, antiestetici.


Nella sua apparente stupidità e piccolezza, questo è solo uno dei numerosissimi ricordi in cui Thomas Bernhard, attraverso il protagonista di Estinzione, ci fa vivere. Infatti, travolti da una valanga che si protrae e cresce per circa 500 pagine, Franz-Josef Murau analizza minuziosamente e senza tregua, tutta la realtà che si trova all'indentro e all'infuori di lui. Cammina nella sua mente, saltando da un ricordo ad un altro, toccando ogni età e ogni evento degno di valore. Che si tratti del passato, del presente o del futuro: la cosa non ha alcuna importanza. Non preserva nessuno (forse solo qualcuno...) dalla sua causticità. Con cinismo e freddezza, abbatte ogni falsità e ipocrisia che, da anni, si è portato dietro. Eppure, non si atteggia da giudice e abbandona qualsiasi intento moralistico. Al contrario, assume un atteggiamento criticamente attivo, che gli consente di analizzare ogni elemento che ha fatto parte della sua vita e delle sue relazioni interpersonali per poi, confutarlo e demolirlo pezzo dopo pezzo.


Lo stile martellante e frenetico di Thomas Bernhard ti trascina, come la forte corrente di un fiume, in un viaggio angosciante e, per certi versi, traumatico. Leggere Bernhard equivale a sottomettersi volontariamente alla cura Ludovico di Arancia Meccanica: occhi spalancati davanti alla realtà, davanti alla sua crudezza e alla sua perversità. Non è facile approcciare un genere di scrittura come la sua: non esistono suddivisioni in capitoli, non ci sono pause, molto spesso dei concetti già introdotti vengono ripetuti più e più volte, fino a far venire la nausea. Ecco perché il suo modo di scrivere non è e non può essere apprezzato da tutti. Non tutti sono in grado di sopportare il suo assillante flusso di coscienza e lo scorrere instancabile di parole che non si infrange mai con suddivisioni in capitoli o paragrafi, come siamo abituati a vedere di solito. È esattamente come avere davanti un monolite, un enorme blocco di marmo bianco privo di spazi o protuberanze. L'assenza di una suddivisione in capitoli, se da un lato risulta essere una scelta audace ed "editorialmente dannosa" (cosa che, senza dubbio, importava meno di zero ad una personalità come Bernhard), dall'altro, invece, è l'unica struttura ammissibile per i suoi scritti. La forma che si decide di dare ad un testo (qualunque esso sia, che si tratti di una sceneggiatura teatrale o cinematografica, di un romanzo, di un racconto breve, di un poema, della lista della spesa...), per uno scrittore, è fondamentale. Essa è eloquente tanto quanto il contenuto stesso dell'opera. C'è (dev'esserci) un'osmosi fra le due cose, una compensazione, un equilibrio. Altrimenti, la creazione appena eretta finisce per pendere da un lato piuttosto che da un altro, col rischio di crollare e causare gravi danni. Il monologo rotolante, incessante, privo di "grandi pause" trasmette in maniera perfettamente adeguata il particolare sentimento di angoscia, di stanchezza e spossatezza che l'autore vuole creare: leggere un testo privo di pause è uno sforzo oltre che mentale, anche fisico (soprattutto se si predilige una lettura ad alta voce). Anzi, forse è proprio leggendo ad alta voce che un testo del genere è maggiormente apprezzabile. La sensazione di soffocamento e assenza di fiato è, per certi aspetti, una connotazione fondamentale della letteratura di Thomas Bernhard.


L'(ab)uso del monologo, dunque, si presenta come una scelta in piena sintonia con i gusti dell'autore austriaco. La ricerca della distruzione del testo, infatti, è un elemento imprescindibile nell'opera di Bernhard: in ogni modo egli tenta di eliminare la trama, di cancellare qualsiasi storia. Un desiderio di nulla, un nichilismo sfrenato pervade le pagine dello scrittore austriaco che, con ogni mezzo, cerca di svilire quanto più possibile il testo: un autentico tentativo di autodistruzione. Non c'è da meravigliarsi dunque, che le tematiche intorno alle quali rotea la letteratura di Thomas Bernhard siano il suicidio, l'angoscia, la malattia. Ma soprattutto, se volessimo individuare un denominatore comune e riassumere la poetica bernhardiana in una semplice parola, essa sarebbe "ossessione". E in ogni libro, che sia Estinzione o Il soccombente, il tema è trattato con estrema minuzia e precisione. Scorrendo le pagine, abbandonandosi ai suoi superbi "monologhi lirici" (come li definisce Pietro Citati), veniamo trascinati nelle menti di personaggi folli, pazzi, ossessivi e tormentati. Ogni anima indossa il proprio cilicio che ne tormenta e strazia le carni, finendo per abbandonarsi totalmente alla fine, dalla quale nessun individuo può scappare. Ognuno di noi è destinato a soccombere. 

                                                                                                                                       di Rocco Rossi

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